Edoardo Buroni è un giovane ricercatore dagli occhi intelligenti e mobilissimi e dalla vivace gestualità. Ex tenore, mi confida, diplomato al conservatorio di Bergamo, Buroni usa la sua voce con una maestria senza pari. Il suo accento marcatamente lombardo mi riporta agli anni dell’università, anni ormai lontani, quando anch’io avevo pressappoco la sua età e mi avvicinavo con entusiasmo, tra gl’insubri nepoti, a una professione di cui poi ho avuto modo di sperimentare anche i lati meno suggestivi. Chissà perché, Buroni mi sembra di averlo conosciuto sempre, eppure lo vedo oggi per la seconda volta. Forse mi ricorda qualche antico compagno di corso, con quel suo nome così lombardo, con quella sua parlata così fluente.
Ricercatore. Parola singolare, che nella semantica quotidiana evoca la strenua disciplina di chi nobilmente si dedica alla ricerca mentre nel piatto, burocratico gergo universitario indica l’ultimo anello di una catena. L’anello, ingiustamente, più debole. Conosco colleghi italiani che sono entrati in università da ricercatori a venticinque anni e da ricercatori sono andati in pensione a sessantacinque. Colleghi che hanno anche saputo rivoluzionare
il modo di accostarsi a certi temi, ambienti e metodi di ricerca, ma che non hanno ottenuto nella propria università i riconoscimenti che meritavano. Nemo propheta in patria. Non che negli atenei finlandesi si stia meglio, anzi. Scopro oggi che all’Università di Helsinki solo la miseria del 10% degli attuali ordinari sono passati per la seconda fascia di docenza (e gli altri da dove arrivano? Da Marte?). Ma qui, per citare una vecchia barzelletta, non ci si può lamentare. Fortuna che in venticinque anni di onorato servizio ho imparato a conoscere al volo i miei interlocutori, a non lasciarmi irretire da titoli accademici, alamari luccicanti o blasoni (pseudo)nobiliari. Così, tornerei volentieri a inizio pagina e cancellerei senza indugi quell’antipatico appellativo, ricercatore.
Edoardo Buroni non ha bisogno di apposizioni: si presenta da sé. Se non lo faccio, in fondo è perché Helsinki spesso porta bene ai ricercatori in visita. Ricordo che nel 2005 invitammo un valoroso ricercatore italiano, allora pressoché sconosciuto, ma di cui era facile intuire l’intelligenza e la preparazione. Dopo pochi mesi vinse un concorso da associato e oggi è ordinario in uno dei maggiori atenei italiani. Speriamo che il precedente sia di buon auspicio.
Del resto, educato alla scuola (accademica) di Ilaria Bonomi, Buroni vanta già un curriculum di tutto rispetto: un paio di monografie su Arrigo Boito e sulla lingua del Cardinal Martini; altrettanti volumi scritti in collaborazione sulla lingua dell’Opera lirica; qualche decina di articoli sul linguaggio politico, sulla lingua dei giornali (e dei media in generale), sull’italiano della Chiesa; innumerevoli adesioni a seminari e convegni in giro per l’Europa; partecipazione a molti PRIN (Progetti di Rilevante Interesse Nazionale). Le premesse ci sono tutte.
Ieri, alla Rikhardinkadun kirjasto, l’ho sentito attraversare cinque secoli di Opera lirica con leggerezza e senza esitazioni. Oggi ha portato un soffio di brio e vivacità nella più sciatta e anonima aula 12 di Metsätalo. Merito anche, va detto, del tema, gli esperimenti linguistici e musicali del complesso Elio e le storie tese (https://it.wikipedia.org/wiki/Elio_e_le_Storie_Tese), di cui ha ripercorso storia, precedenti e successi.
Elio l’ho conosciuto insolitamente presto, negli anni Ottanta, quando studiavo nel feudo milanese del gruppo. Allora mi aveva colpito la vena ironica e dissacrante del complesso, che ho seguito con interesse per anni, anche se ho poi avuto la sensazione che dopo le straordinarie, graffianti invenzioni verbali della Terra dei cachi (1996) avesse perso un po’ della sua brillantezza. Oggi, a distanza di tanti anni, la ricerca di Stefano Belisari (Elio) e dei suoi amici mi sembra l’esempio perfetto della cultura del cosiddetto Postmoderno: il citazionismo ironico, l’ibridismo dei generi (musicali), l’abolizione delle barriere tra cultura alta e bassa, tra sacro e profano, la pluralità dei discorsi, la capacità di far interagire nei loro videoclip diversi codici comunicativi (musica, immagine, gestualità).
Mi ha fatto perciò particolarmente piacere constatare la folta presenza di pubblico. Un pubblico interessato e preparato, a giudicare dalle risate che accompagnavano le citazioni dei giochi verbali evocati dal conferenziere. Capire una battuta in una lingua diversa dalla propria richiede competenze linguistiche avanzate. Non sempre il riso abbonda sulla bocca dello stolto: a volte saper ridere, anche di se stessi, è un dono.
Enrico Garavelli, professore associato e libero docente di Filologia italiana – Dipartimento di Lingue – Università di Helsinki
https://researchportal.helsinki.fi/en/persons/enrico-garavelli